Piero T. de Berardinis


Biografia

EVS - Edgard Varese Studio

Anni '80
Il Laboratorio di Musica Elettronica diretto da Riccardo Bianchini venne costituito a Pescara presso il Conservatorio "L. d’Annunzio" negli anni ’80. Ebbe vita breve a causa del furto della quasi totalità degli strumenti tecnici in esso conservati, evento che ne provocò la chiusura con il trasferimento, presso il Conservatorio "G. Verdi" di Milano, dello stesso Bianchini.

L’Edgard Varese Studio di Pescara nacque nella primavera del 1982, da una mia idea, nella classe di musica elettronica che fu del maestro F. Evangelisti nel Conservatorio dell’Aquila “A. Casella”, presso il quale fui costretto a trasferirmi dopo la chiusura del laboratorio di Pescara, con la denominazione originaria di “Studio di Sonologia Computazionale Edgard Varese”.

Ricordo che in quel periodo in Italia era attivo unicamente il centro di Padova (Centro di Sonologia Computazionale) sotto la direzione di De Poli e Vidolin: il nome del mio studio, più che un omaggio al neologismo, è stato voluto per ribadire, con una non velata volontà di contrapposizione (culturale, naturalmente), la necessità che la produzione di musica elettronica non fosse riservata ad un unico “Centro” (l’accesso al potente calcolatore IBM dell’università era infatti privilegio di pochi eletti), inteso come punto d’attrazione culturale, monopolistico ed omogeneizzante, bensì che potesse essere, nella completa libertà ideativa e nella massima autonomia ed indipendenza, espressa e realizzata anche, e soprattutto, mediante i piccoli elaboratori personali (personal computer) la cui commercializzazione vedeva la luce proprio in quel periodo. Fino ad allora, e per molto tempo in seguito, la produzione di un brano di musica elettronica aveva richiesto una sequenza di operazioni lunghe e complesse, dalla preparazione del materiale analogico di base su nastro magnetico con suoni di sintesi (io personalmente utilizzavo, e conservo ancora, un sintetizzatore Korg modulare con decine di cavi per il collegamento dei moduli di generazione) al successivo taglio (meccanico) del nastro nelle singole sezioni, dall’assemblaggio dei vari spezzoni al montaggio finale su bobina con giunture di nastro adesivo: il tutto organizzato da una partitura approssimativa in secondi e centimetri (di nastro !).

Ai problemi logistici puri, quali la difficoltà di ottenere esattamente ciò che era stato pensato o la necessità di ripetere intere sezioni per la rottura o smagnetizzazione del nastro, si aggiungevano problemi tecnici: indescrivibili fruscii di fondo, silenzi o “click” improvvisi tra le giunture, perdita di livello, effetto copia, flutter e tanti altri. Il personal computer, con le sue prime schede musicali (digitali!) ad 8 bit a sintesi additiva, la possibilità di gestire sia il materiale che la sua organizzazione strutturale (in forma digitale!), la memorizzazione dei dati (inalterabili e digitali!) su supporti magnetici, ebbe un effetto dirompente: l’equivalente della scoperta dell’America, della conquista della Luna, dell’invenzione del cinematografo, della radio o della televisione. E noi eravamo lì, spettatori e protagonisti di un evento che, ancora oggi, sta rivoluzionando il modo di vivere, di pensare e di comunicare di milioni di persone: la tecnologia Internet, che è un ramo di quella evoluzione, allora assolutamente inimmaginabile e dallo sviluppo decisamente imprevedibile, è ben pallida cosa rispetto allo sconvolgimento determinato dall’apparizione del personal computer nelle attività umane. Ma torniamo alla nostra storia: riprendersi dallo shock non fu facile. Fu necessario iniziare a pensare in termini “digitali”: ora il brano poteva essere organizzato e controllato in tutte le sue parti, con possibilità di correggere intere sezioni in tempi rapidissimi, effettuando montaggi elettronici perfetti: i timbri potevano essere creati al computer “disegnandone” (?!) la forma d’onda sul monitor con penne elettroniche, le frequenze controllate da programmi alfanumerici in linguaggi evoluti, le partiture stampate in notazione grafica o tradizionale con precisione millimetrica. Si pensi al musicista, abituato all’aleatorietà e alla fisicità del suo strumento o al compositore alle prese con elementi ostici e indomabili quali l’equilibrio tra le sezioni in una partitura a 24 righi, improvvisamente messi di fronte ad uno strumento totalmente ed affidabilmente controllabile e programmabile, ad una sorta di replicante “alter ego” infallibile ed ineffabile. Questa era l’atmosfera che si respirava in quello stanzino dell’ultimo piano del Conservatorio dell’Aquila quando portai per la prima volta in aula un glorioso Apple // 48k (!) con monitor a fosfori gialli e scheda musicale Music System Mountain Computer ad 8 bit. Quel cursore lampeggiante sullo schermo alfanumerico dava una sensazione di potenza (onnipotenza?) e di sicurezza che trascendeva il senso estetico, imponendo il suo ritmo alla scansione del tempo reale. Nacquero così i seminari sull’”Operatività del linguaggio Basic nella compilazione di algoritmi musicali” (1982), i primi “Concerti per computer solo” (1983), l’”Audioterapia computazionale” (1983) e la nascita della rivista “Quaderni di Informatica Musicale” (1984).

Del 1983 è l’incontro con la Jen Elettronica (di Pescara) per lo sviluppo del primo computer musicale italiano su piattaforma Apple //, scheda musicale 8 bit a sintesi additiva e tastiera (Fatar di Recanati) a 61 tasti: il MUSIPACK (1.0), presentato al BMF di Londra nell’estate di quell’anno, riscosse un notevole apprezzamento soprattutto tra i compositori dell’area colta (→ 1)(→ 2)(→ 3)(→ 4). Software più specifici in uso sulla stessa piattaforma, quali “STRUCTURE” e “MULTITRACK”, sono stati utilizzati per la produzione di brani complessi su 32 piste ad 8 bit sino ai primi anni '90. I primi Apple // avevano solo 48k di memoria (con processore 6502 ad 8 bit) e le schede a sintesi additiva generavano problemi di oversampling con tastiere superiori a 48 tasti: il Musipack è stato il primo software in grado di gestire correttamente tastiere a 61 tasti e le sue routine operative, purtroppo non brevettabili, sono state successivamente copiate e usate dai produttori internazionali per estendere, all'epoca, i loro hardware.

Del 1985 sono gli incontri con Roberto Barbanti (Gruppo Format) sull’ipotesi di duetti per “Microcomputer in real time” (Hybrides Evenements, Parigi 1984-85), le conversazioni universitarie su “Applicazione del microcomputer nell’analisi e ricerca musicale” e a Bologna (DAMS) e Modena con il prof. Mario Baroni su “MUSIC IX: un package per la ricerca e la composizione” (1985). Erano anni pioneristici nei quali cominciavano a circolare termini quali “input” e “output”, “campione”, “frequenza di campionamento”, “clock”, ecc. In commercio iniziavano ad entrare le prime tastiere con sequencer che permettevano la registrazione di un solo brano per volta su una memoria interna volatile... Dalla fine degli anni ‘80 ai giorni nostri, il perfezionamento della tecnologia, con l’avvento dei CD audio e rom, i campioni reali a 16, 32 e 64 bit, il DAT, l’hard-disk recording, il dvd, ecc. ha realizzato il sogno di ogni musicista: poter produrre e controllare il suono nei minimi particolari senza dover ricorrere a costosi studi di registrazione e con una qualità ed affidabilità impensabili. Ora che la tecnologia ha risolto il problema tecnico, ha senso comporre “il suono, col suono, nel suono”? Cosa vuol dire seguire le regole dello Zarlino o l’armonia basata sul temperamento equabile potendo disporre di macchine capaci di produrre autonomamente ottime composizioni, di suonarle e di arrangiarle come meglio un compositore ed un esecutore esperto non potrebbero fare? La grande contraddizione dello sviluppo tecnologico non seguito da un equivalente sviluppo culturale si evidenzia nella produzione musicale contemporanea in tutta la sua tragica realtà e rende opportuna una distinzione netta tra “musica elettronica” di consumo ed “informatica musicale” di ricerca.

Il negato riconoscimento della storicità dell’informatizzazione nella musica contemporanea italiana è dovuto soprattutto alla mancanza di una teorizzazione strutturale del procedimento compositivo. L’aver ridotto il fenomeno ad un fatto puramente tecnico-elettronico ha negato all’evento l’elevazione al rango di processo culturale privandolo dei connotati estetici e filologici che ne determinano assolutamente un posto di primo piano nella storia musicale italiana. La confusione tra “musica elettronica” ed “informatica musicale” si è accentuata soprattutto negli ultimi anni, creando disinformazione e sconcerto non solo tra la gente comune ma anche tra gli stessi addetti ai lavori.

Tra i fini, se così possiamo dire, “istituzionali” dell’Edgard Varese Studio, di primaria importanza è sempre stata la conservazione della perfetta linearità ed evoluzione dello sviluppo storico del filone “elettronico” del processo musicale, dal concretismo di Russolo all’analogismo elettro-meccanico di Stockhausen, dalle ricerche timbriche di Berio e Maderna alla poetica sociale di Nono. Ed è fondamentale che ciò che noi chiamiamo “informatica musicale” sia oggi diretta espressione e conseguente evoluzione di quel percorso culturale profondamente e tipicamente europeo che trae origine dalla storia e dagli uomini che ne hanno scritto le pagine più complesse e significative. Dunque, distinzione netta e decisa dalla “musica elettronica” (o non sarebbe meglio dire “elettrica”?) di fine Novecento, prodotta da gruppi rock o singoli compositori, nei quali la variante timbrica è puro sotterfugio commerciale o da pittoreschi personaggi d’oltre oceano figli di una cultura che non può (e non dovrebbe) appartenerci.

La denominazione attuale dell'EVS è LIRM (Laboratorio di Informatica e Telematica per la Ricerca Musicale) in attesa di un luogo istituzionale che ne decreti la rinascita storica e culturale.

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